A cura di Bianca Amadio

Il 16 settembre si è tenuto un incontro formativo nel comune di Mercatino Conca, diviso in due parti, da 4 ore ciascuna, a due gruppi diversi. La formazione è rivolta agli operatori di una azienda che si occupa di attività nel campo sanitario, sociale ed educativo. Questo era il secondo intervento del Dott. Sammy Marcantognini (psicologo e psicoterapeuta). Il tema dell’incontro è stato l’aggressività nei luoghi di lavoro.

Il primo quesito che il Dott. Marcantognini ha posto al gruppo è stato: “Che cos’è l’aggressività? Siete o no aggressivi? Come viene espressa l’aggressività?”. Inizia subito il dibattito. Alcuni hanno sostenuto che l’aggressività venga mossa da varie emozioni, come la tristezza, la rabbia e la paura. Una ragazza ha dichiarato di essere stata aggressiva verso sé stessa, in passato, si auto-demoliva. Altri hanno sostenuto che l’aggressività sia una difesa, per evitare situazioni fisiche, o che l’aggressività sia una reazione a qualcosa che non rispetti la propria idea. Una donna ha specificato che l’aggressività è presente in ognuno di noi e si divide in manifestazioni più eclatanti o con atteggiamenti del corpo.                                                               Il Dott. Marcantognini interviene dicendo che, nella società di oggi, ai ragazzi viene chiesto, a seconda dell’ambito in cui si trova, di essere o non essere aggressivi, mettendoli così in confusione.

L’aggressività viene dal latino  ”ad gredior”, il cui significato è andare verso. In un’azione aggressiva si attivano i muscoli del dorso, delle braccia e la bocca si muove in avanti; la stessa modalità si osserva nel bambino quando prende il latte. L’aggressività è una forma naturale antichissima di proposizione e di proattività alla vita. Lorenz ha scritto un libro su questo tema, “L’aggressività, il cosiddetto male”, in cui spiega appunto che quest’ultima è un’azione resa tangibile dai grandi muscoli del corpo.

In ambito educativo, vi è una distorsione dell’aggressività. A scuola, il dettato, la lavagna e la grammatica sono gli strumenti che hanno il fine di “mettere dentro” al bambino il sapere. In realtà, l’etimologia della parola “intelligenza”, dal latino “intelligere”, significa “leggere dentro le cose”, ciò suggerisce che la scuola non dovrebbe proporre delle istruzioni, ma mettere l’allievo davanti a dei quesiti e lasciarlo ragionare da solo. Anche la parola “educare”, dal latino “educere”, significa “tirare fuori”, il contrario di ciò che l’istruzione fa, cioè “mettere dentro”.                                    All’interno della scuola, le maestre spesso pongono un quesito, un problema e cercano la risposta dai bambini dando già la modalità di risoluzione del compito. Questo è sbagliato, perché il bambino, posto davanti al problema, deve cercare da solo un metodo per trovare una soluzione. Esponendo la tecnica, non si agevola il progresso all’interno bambino.

L’aggressività può essere allenata, chi non l’allena rischia di costruire atteggiamenti passivi verso la vita. La natura suggerisce che l’aggressività fa parte di noi. Ciò può essere visto nel riflesso di suzione dove il bambino muove il capo, apre la bocca e prende la tetta.  Sono quattro gli elementi per allenare l’aggressività: frustrazione, lotta, contatto e lentezza. Frustrazione del bambino nel processo di adattamento all’ambiente; lotta tra i pari nella crescita, contatto con sé stessi, con l’ambiente e con l’altro. Lentezza come componente per apprendere da soli. Nel parto come nell’allattamento, questi aspetti sono connessi l’uno all’altro.

Sammy pone un problema. Nel centro di servizi specialistici Ethica Center, a metà percorso dei bambini nell’attività sportiva, si svolge un incontro genitori-figli con gli educatori. Ad un certo punto viene messa una asse di equilibrio al centro della palestra e viene chiesto al bambino, con il proprio genitore, di percorrerla. I riscontri solitamente sono due, uno l’opposto dell’altro. Alcuni genitori lasciano il bambino da solo ad affrontare il problema, perché pensano a sé stessi e al fatto che nella vita hanno raggiunto da soli i loro obiettivi. Altri, avvolgono i bambini appena questi salgono sulla trave, perché pensano che il bambino abbia paura, in realtà è il genitore che ha paura. Al termine dell’esercizio, viene proiettata sul muro una frase di Socrate: l’allievo che non ha percorso, almeno la metà del cammino da solo non ha appreso nulla.                                                                                                                                                 Il bambino lasciato da solo nella trave è soggetto ad un’alta quantità di frustrazione e, come aveva constatato Freud, la frustrazione genera energia psichica. Questa situazione provoca nel bambino aggressività che lo porta a fare delle cose eccessive per la sua età.                                                                                                                                                                          Il bambino troppo protetto non è soggetto a nessun tipo di frustrazione e, non allenandola mai, quando si verificherà nella sua vita un lutto o una sconfitta, spesso gli potrà accadere di cadere in una forma di aggressività contro sé stesso.                                                                                                                                                                        Uno dei fattori importanti nel processo educativo del bambino è: la coerenza dei genitori. Ci deve essere una linea di coerenza continua, mantenuta da entrambi i genitori: azione sintonica. L’azione distonica porta alla confusione e ad un’organizzazione che non dà risultati.

Un altro tema affrontato nell’incontro è la leadership. Il Dott. Marcantognini ha posto un problema: uno a rotazione doveva decidere la posizione delle sedie all’interno della stanza secondo una idea personale di bellezza estetica. Una ragazza, mentre eseguiva il compito, chiedeva conferma al dottore e non si rivolgeva decisa al gruppo. Questo è un fattore che è in contrasto con la definizione di leader, poiché il leader è colui che non ha bisogno dell’autorizzazione di qualcun altro ma trova una sicurezza in autonomia nelle sue decisioni.                                                                                                                                                              Un uomo, durante l’esecuzione, parlava in modo veloce e non riusciva a gestire la situazione. In questo caso, la velocità è un tentativo per non sentire l’ansia. Anche questo aspetto non è intrinseco nel significato della parola leader, poiché egli, anche nelle situazioni per lui “scomode”, deve prendere il suo tempo e mantenere la calma.                                                                                                                                                                            A questo punto, lo psicologo interviene e afferma che un buon leader è colui che utilizza sia la modalità democratica, sia quella autorevole, a seconda della situazione, perché non c’è una modalità assoluta adeguata ma dipende dal tipo di squadra che si ha, dal tempo e lo spazio, e principalmente da “chi sono io” come leader. Un buon leader emerge quando sa reagire in modo giusto nelle situazioni imprevedibili.                                                                                                            Coerenza e consapevolezza del leader. Un buon leader deve saper gestire in maniera adeguata il comportamento direttivo e socio/democratico. Una buona modalità assunta dal leader, lo porta a attuare delle scelte strategiche (all’interno di una squadra) a prescindere dalle relazioni affettiva che vi sono all’interno.

Differenza tra gruppo e squadra. Gruppo: persone che decidono di stare insieme per uno spirito comune, per il piacere di stare insieme. Squadra: insieme di persone con obiettivi comuni (professionali, sportivi…). All’inizio bisogna creare un goal-setting, dichiarare i vari obiettivi e l’obiettivo finale. In aggiunta, è necessario creare degli obiettivi intermedi, per giornate, settimane. Questi sono plasmati a seconda della squadra e del tempo a disposizione. Essi devono essere ambiziosi ma fattibili. All’interno della squadra devono essere chiari i ruoli, in termine di status.                                                                                                                                                                              Il Dott. Marcantognini fa una provocazione: “per essere una buona squadra, bisogna essere anche un buon gruppo?”                            Una buona squadra non deve essere per forza un buon gruppo. Infatti, un grande problema degli allenatori è quello di cercare di rendere le squadre dei buoni gruppi, ciò può provocare litigi e dinamiche relazionali forzate che non portano alla vittoria in campo.

Ultimo tema affrontato nell’incontro è il carisma. Il carisma viene dal greco “chàrisma”, significa grazia, intesa come percorso intrapreso da una persona e che l’ha condotta ad ottenere la grazia nel suo modo di essere, negli atteggiamenti.

Nietzsche scriveva che “un costruttore di nuovi cieli è passato dall’inferno”, ciò per indicare che una persona per ottenere la grazia e il carisma deve essere uscita “dall’inferno” (proprio percorso di vita).