Durante l’incontro, condotto dal Dott. Sammy Marcantognini, è stato proposto un tema fondamentale per il nostro momento storico, che tocca corde profonde sia sul piano psicologico che su quello sociale: è possibile eliminare le differenze? La disuguaglianza è una causa di frustrazione e ansia sociale?

Per rispondere a queste domande, è utile partire da una comprensione condivisa sul significato da attribuire al concetto di “ansia sociale”.
Con questa espressione si intende un disagio marcato, che nasce dal timore del giudizio altrui, dal confronto costante e dalla sensazione di non essere “abbastanza” in determinati contesti sociali.
Un concetto complesso, che si intreccia inevitabilmente con la percezione delle differenze e delle disuguaglianze.

L’intervento del Dott. Sammy Marcantognini ha offerto una prospettiva personale, ma profondamente radicata nella sua formazione, evidenziando che non è possibile eliminare del tutto le differenze tra le persone, poiché la diversità è una caratteristica intrinseca della condizione umana.
Eliminarla significherebbe rinnegare ciò che rende ciascun essere umano unico. Questo non solo è impossibile, ma forse anche dannoso.

Tuttavia, il Dott. Marcantognini sottolinea come le disuguaglianze possano effettivamente generare frustrazione, raccontando, ad esempio, che durante le sue partite di tennis provava fastidio quando l’avversario giocava meglio di lui, scaturendo questa reazione, all’apparenza banale, ma in realtà significativa, poiché la frustrazione, il fastidio, la rabbia che ne derivano, sono emozioni primarie, radicate in profondi meccanismi evolutivi.

La rabbia, la paura, il disgusto e il fastidio sono emozioni che hanno avuto – e hanno tuttora – una funzione adattiva.
Basti pensare all’uomo primitivo, che sputava un’erba velenosa grazie alla sensazione sgradevole che provava: proprio quel fastidio lo salvava.

Allo stesso modo, oggi, il fastidio che proviamo di fronte alla disuguaglianza può rappresentare un segnale importante da ascoltare. Non va negato o represso, ma compreso. Può parlarci di un bisogno, di un’ingiustizia percepita, di un senso di inadeguatezza che merita attenzione.

In definitiva, il confronto con l’altro può diventare sia fonte di sofferenza, sia un’opportunità per approfondire la conoscenza di sé.
Le differenze non si possono eliminare, ma possiamo imparare a conviverci e a gestirle, trasformando le emozioni che ne derivano in strumenti di consapevolezza e crescita.

Ognuno di noi, prima o poi, sperimenta la frustrazione: condizione universale, che può scaturire dal confronto, dall’invidia – anche se questa andrebbe considerata come una dinamica distinta – o dal percepirsi in una situazione di svantaggio. Una metafora utile per comprendere questa dinamica è quella dello sport che, soprattutto nel contesto agonistico, mette l’atleta di fronte a un avversario che può avere un vantaggio fisico o tecnico, ed è proprio in questa prova che si misura la vera differenza.

La disuguaglianza in questo senso, diventa parte costitutiva dell’esperienza competitiva, facendo emergere le criticità nel modo in cui gestiamo le emozioni che tale condizione può suscitare. Scontiamo ancora oggi le conseguenze di una comprensione tutt’ora limitata dell’intelligenza affettiva, come la rabbia sociale ad esempio, che non scaturisce semplicemente dal fatto che l’altro sia diverso da me o abbia qualcosa in più, ma nasce quando la frustrazione si trasforma in agito: non mi limito a competere, ma desidero fare del male all’altro e questo non è più un fenomeno emotivo puro, ma un prodotto disfunzionale dell’emozione, che manifestandosi nell’azione, genera determinati conseguenze.

Sì, la disuguaglianza crea frustrazione, ma la frustrazione non è negativa in sé: è un’emozione fondamentale, necessaria per la crescita. Un bambino che non riesce a percepire le emozioni proprie e quelle altrui – non sviluppando quindi empatia – sarà un bambino svantaggiato, prima o poi la vita lo metterà di fronte a situazioni frustranti, di cui pagherà le conseguenze se non avrà gli strumenti adeguati ad affrontarle. È quindi importante che le disuguaglianze esistano e che generino frustrazione entro un contesto regolato, dove ci siano limiti chiari e spazi di elaborazione.

Non dovremmo evitare le differenze, ma anzi metterle in luce: sono oggettive, inevitabili e persino necessarie. Un esempio particolarmente significativo deriva dallo sport paralimpico. Durante le Paralimpiadi di Londra, Sammy ha seguito un atleta in sedia a rotelle, con reali possibilità di salire sul podio. Al termine della manifestazione non è riuscito a raggiungere l’obiettivo, un risultato che lui ha vissuto come un fallimento profondo. Una volta tornato a casa, ha detto a Sammy: «Mi hai trattato come un handicappato». La risposta più onesta, in realtà, sarebbe stata: «Sì, lo sei» – ma non nel senso che lui intendeva.

Non è stato trattato come un semplice amputato, bensì come una persona per la quale l’amputazione non lo rendeva soltanto un disabile motorio, ma anche emotivo e quindi gli è stata sottratta la possibilità di sfruttare al massimo la sua diversità. La vera sfida sta proprio in questa differenza di significato: riconoscere una condizione senza trasformarla in una condanna.

Nel lavoro con atleti disabili emerge una verità complessa ma fondamentale: trattare tutti “allo stesso modo” non sempre equivale a fare giustizia. Sammy ricorda bene la sensazione provata nel seguire quell’atleta amputato: su di lui si concentrava un’attenzione non adeguata che probabilmente non avrebbe avuto con un atleta normodotato.
Allo stesso tempo, però, non poteva chiedergli di correre o saltare come chi ha entrambe le gambe. Si è chiesto: “Ho sbagliato? L’ho trattato come una persona fragile, come se non fosse in grado di sopportare lo stress e la pressione tipici dello sport ad alto livello?”

Eppure, in realtà, i neuroni di quell’atleta – la sua capacità di affrontare la vita – erano forse più robusti di quelli di Sammy. Vivere ogni giorno senza una gamba richiede una forza straordinaria. Perciò, trattandolo con troppa protezione si finisce per alterare quella disuguaglianza: negandola, addolcendola, distorcendola. Il vero rispetto, invece, passa proprio dal riconoscimento sincero e pieno delle differenze.

Lo stesso errore si ripete in contesti familiari e scolastici, dove genitori o educatori si ostinano a credere che i loro figli – anche con difficoltà cognitive o affettive importanti – possano raggiungere gli stessi obiettivi di chi non presenta alcuna fragilità.
L’illusione è che “tutto si può fare”, che “tutti sono uguali”. Ma non è così.
Un ragazzo con sindrome di Down non può giocare nella stessa squadra di Cristiano Ronaldo: c’è una disuguaglianza ed è oggettiva. Negarla non è rispetto, è inganno.
Detto ciò, non significa che ci siano differenze di valore.

Il rispetto per la persona con disabilità inizia, invece, dal riconoscimento della sua diversità.
Ma attenzione: riconoscere la differenza non significa negare le potenzialità dell’atleta amputato.
Per esempio, avrebbe potuto gestire lo stress psicofisico proprio come un altro ragazzo con un sistema nervoso integro. Infatti, a posteriori, fu lui stesso ad assumersi parte della responsabilità del fallimento: «È anche colpa mia – disse – invece di allenarmi seriamente andavo in giro a farmi vedere, a fare il figo per mostrare quanto ero bravo con una gamba in meno….».

Nel tempo, Sammy ha imparato che il primo passo — in ogni relazione educativa o terapeutica — è riconoscere lucidamente la propria condizione.
Ognuno ha le proprie caratteristiche uniche, e questo non è un giudizio, ma un dato di realtà.
È solo partendo da questa consapevolezza che possiamo insegnare davvero ai ragazzi a costruire la propria identità.
Un’identità che non va cercata nel confronto con un ideale irraggiungibile, ma proprio nella differenza, nella disuguaglianza vissuta, nella verità del proprio corpo e della propria storia.

Howard Gardner, psicologo cognitivista statunitense, ha rivoluzionato il nostro modo di intendere l’intelligenza.
Non esiste un solo tipo di intelligenza, né soltanto le classiche tre a cui spesso si fa riferimento.
Secondo Gardner, le intelligenze sono almeno nove e comprendono, oltre a quella logico-matematica e linguistica, anche l’intelligenza naturalistica, musicale, motoria, introspettiva, spaziale e scientifica.
Questa visione ci ricorda una cosa fondamentale: io non sono uguale a nessuno.

Prendiamo il caso di Einstein, che riuscì a concepire un principio come la relatività, immaginando che un semplice regolo di legno, muovendosi alla velocità prossima a quella della luce, cambi dimensione a seconda della prospettiva da cui lo si osserva.
Un’intuizione di questo tipo non nasce da un approccio strettamente logico-razionale, perché lì dove “due più due fa quattro”, la relatività infrange quelle regole.
Serve un altro tipo di intelligenza: una mente capace di immaginare oltre ciò che è misurabile.

E qui nasce un problema: il nostro sistema educativo fatica ancora ad accogliere questa complessità. L’obiettivo implicito spesso non è formare individui completi, ma far sì che i ragazzi ottengano buoni risultati nei test standardizzati – come le prove Invalsi – che misurano solo competenze logico-matematiche e linguistiche.
Ma se valutiamo l’intelligenza soltanto con questi criteri, dovremmo allora concludere che Einstein, incapace forse di rispondere a quelle domande, fosse uno stupido?

Dire che siamo tutti diversi non significa trattare ogni persona in maniera arbitrariamente diversa, ma riconoscerla per quello che è.
Prendiamo di nuovo l’esempio dell’atleta amputato: trattarlo come una persona “normale” non vuol dire ignorare la sua condizione, ma trattarlo come una persona consapevole di avere una sola gamba.
Se per una persona normodotata salire una scala richiede venti secondi, per lui potrebbero servire quattro o cinque minuti, questo non lo rende inferiore, solo diverso.

È proprio da qui che parte il lavoro educativo e umano: aiutare i ragazzi a scoprire la propria identità attraverso il riconoscimento delle proprie differenze.
Ma come si costruisce l’identità? Non nell’omologazione, bensì nel conflitto; esattamente nel momento in cui un giovane si trova davanti a qualcuno che non la pensa come lui, che inizia davvero a definirsi.
Non nel rifiuto dell’altro, ma nel confronto, ed è lì che si chiarisce a se stesso, che prende forma la sua identità.

Le differenze, quindi, non creano superiorità o inferiorità, ma delineano il nostro posto nel mondo. Quando si cerca di forzare l’uguaglianza in modo cieco, si ottiene il contrario: si genera frustrazione.
Il bambino non vuole essere uguale a tutti per forza, vuole essere libero; necessita di essere trattato con equità, ma senza perdere la propria unicità.
La vera uguaglianza non è annullare le differenze, ma permettere a ciascuno di esistere e di essere rispettato così com’è.

Spesso si fraintende il concetto di diversità, pensando che per un bambino sentirsi diverso significhi essere libero di fare tutto ciò che vuole. Ma non è così.
A questo punto viene in aiuto Freud, psicoanalista, che ci ricorda come sia fondamentale stabilire dei limiti chiari.
Ad esempio, quando un bambino tocca il seno della maestra, il primo passo non è giustificare o accettare quel comportamento, anche se in qualche modo naturale, ma fermarlo subito, spiegandogli che non si può fare.
È importante mettere dei confini, che sono essenziali per crescere e imparare a vivere con gli altri.

La diversità non è sinonimo di anarchia o permissivismo. Ciò non significa che i ragazzi possano fare quello che vogliono senza regole, ma esiste un “muro di gomma”: non ti fai male se ci sbatti contro, ma non lo puoi oltrepassare.
I confini servono a questo: a proteggere, a guidare, a indicare cosa è accettabile e cosa no.

Perché allora è così importante parlare di diversità?
Perché la diversità va non solo accettata, ma prima di tutto riconosciuta e identificata.
Senza consapevolezza non c’è accoglienza vera.

Un bellissimo esempio di dialogo sulla diversità e la speranza lo troviamo nel libro Il futuro è aperto, una conversazione fra due grandi pensatori del secolo scorso: Karl Popper e Konrad Lorenz. Due austriaci che da bambini erano insieme a Vienna e che, novantenni, si ritrovano a discutere davanti a un camino.
Lorenz, etologo e premio Nobel per la Medicina, e Popper, filosofo della scienza, riflettono insieme sul significato della diversità nella vita.

Popper dice a Lorenz che la vita è speranza e azione: lavora come se ogni giorno fosse possibile trovare una vita migliore, una nicchia ecologica nuova in cui prosperare.
Qui, piante e animali vivono con questa tensione, pronti a rischiare e a adattarsi.
La diversità non è una condanna, ma un’opportunità per la selezione e il progresso.
Essa apre la strada a una visione in cui la diversità non è più un limite, ma un punto di partenza per costruire un futuro migliore, fatto di rispetto, consapevolezza e speranza.

Gli esseri viventi senza iniziativa, curiosità e fantasia sono condannati a dover lottare per nicchie ecologiche già occupate.
Come dice Sammy, questa è un’aggressività dettata dalla necessità: “vado a prendermi qualcosa”. Ma chi possiede iniziativa non si limita a competere per ciò che esiste, bensì crea nuove nicchie ecologiche: non libere, ma inventate, costruite da zero.

Lorenz ci aiuta a comprendere meglio questo concetto.
Chi rischia qualcosa al di là del semplice adattamento e ha successo, si colloca su un livello superiore. 

Prendiamo come esempio uno scoglio nel mare, dove è facile trovare animali come anemoni o lumache perfettamente a loro agio.
Al contrario, altre specie, come quelle che nuotano molto velocemente, preferiscono ambienti completamente diversi. 

Ma chi riesce a stare bene sugli scogli e a nuotare velocemente?
Solo alcuni pesci corallini, considerati più intelligenti.
Tuttavia, è solo a un livello superiore che si riesce a risolvere un problema complesso come questo.

L’insegnamento è chiaro: la speranza di diventare “pesci corallini” – capaci di affrontare e superare sfide complesse – deve essere una possibilità aperta per tutti i nostri ragazzi.
È importante istruire i giovani sul fatto che questa capacità non è innata, ma una scoperta e un percorso che richiede rischio e impegno, dove bisogna essere aggressivi nel senso positivo del termine, pronti a “prendersi qualcosa”.
Di contro, se non si insegna ai giovani a rischiare, a essere curiosi e a prendere iniziativa, si ritorna al punto di partenza.
Con tutto il rispetto per i “vermi” e gli “anemoni”, il problema dello scoglio non si risolve.

Questa è l’essenza del problema. Ma come si insegna tutto questo ai giovani?
C’è un solo modo: con l’esempio. L’unica strada è la testimonianza concreta: “Tu lo fai?”.

Al contrario, se ci concentriamo solo sull’uguaglianza forzata, i “pesci corallini” non esisterebbero e, pretendendo che tutti siano uguali, il problema dello scoglio non si risolverebbe comunque.
Chi è stato costretto a un’uguaglianza imposta, senza riconoscere il proprio bisogno personale di differenza, rischia di diventare un masochista.

Nel linguaggio comune, il masochista è colui che prova piacere nel soffrire. Ma, sotto un profilo più profondo, il masochista è chi, a livello emotivo, dice sempre sì, non dà fastidio, sembra collaborativo.
Sono quel tipo di persone che aprono l’azienda la mattina, parcheggiano, svolgono mille compiti e fanno da mangiare, ma dentro sentono una profonda rabbia perché non riescono mai a dire no.
La loro rabbia interiore non riesce mai a emergere; il loro linguaggio del corpo è chiuso, come una caramella stretta nel bacino e alla gola, e non esprimono mai un rifiuto.

Il problema si manifesta soprattutto quando si toccano i loro confini etici.
In quel momento può scoppiare una vera e propria carneficina emotiva. Non creare disuguaglianza, non permettere di dire no, genera masochisti.
Da un lato può sembrare che “vada bene così”, perché non creano problemi, ma dall’altro significa che manca la libertà vera.

Spesso si pensa allora: “Facciamogli fare tutto ciò che vogliono, così non saranno più masochisti”. Ma questa strada porta dal masochismo al terrorismo emotivo.
Esiste una via di mezzo?

La formazione in psicoterapia, in particolare nell’analisi bioenergetica, aiuta a capire questo dilemma.
È una disciplina che lavora con il corpo, che ha una valenza spesso più importante della parola. Secondo Lowen, ogni muscolo cronicamente teso è un muscolo arrabbiato, perché la rabbia nasce come reazione naturale a una restrizione coatta, alla perdita della libertà.

Si pensi a un bambino appena nato: se lo si tiene fermo per le mani, lui tenderà spontaneamente a liberarsi.
Questo riflesso viene anche usato per valutare la salute del neonato.
Per esempio, se un bambino non riesce mai a liberarsi, rischia di diventare masochista, o – per usare un termine forse improprio – “potenzialmente omicida” in senso simbolico.

Qual è la soluzione? 

L’organismo sano è quello che mantiene un equilibrio tra rilassamento ed eccitazione.
Basta pensare al cuore: se il muscolo cardiaco si contraesse e basta, senza rilassarsi, le arterie si danneggerebbero.
Il sistema biologico è fatto per essere pulsante e vibrante, in un continuo bilanciamento. 

Un organismo sano ha quindi un equilibrio tra refrattarietà e stimolo, impulsi e sentimenti, ma anche la padronanza di sé necessaria per gestire tutto questo in modo efficace, ed è di questo che si parla quando si parla di fisiologia.

Se invece non viene dato un giusto contenimento, la persona rimane continuamente eccitata, l’opposto del masochismo.
Questa è quella che spesso chiamiamo “libertà”, ma che in realtà non lo è affatto.
La vera libertà non è assenza di confini, ma la presenza di confini entro i quali possiamo muoverci e vivere.
Il masochista, invece, è colui che ha ricevuto solo contenimento, senza possibilità di esprimere le proprie emozioni in modo autentico.

Mente e corpo sono strettamente connessi, soprattutto nel bambino che, per svilupparsi, deve avvicinarsi al seno materno.
Deve sentire con le labbra l’impulso per il riflesso di suzione, attaccarsi al seno e provare anche la frustrazione quando il latte non arriva subito.
È proprio in quella frustrazione che si trova il contenimento, perché non è infinita.
Il bambino si muove, sbatte, lotta, il latte arriva, si riempie e prova piacere.
Se gli facessimo tirare il seno per giorni senza che esca nulla, quello sarebbe un segno di masochismo.

Secondo Lowen, la repressione cronica della rabbia sfocia anche nella repressione dell’amore. Esprimere la rabbia apre la strada ai sentimenti, come la tenerezza, che è un sentimento fortissimo, quasi violento.
Lowen aveva ragione: puoi amare davvero solo se sai esprimere anche l’aggressività. 

La rabbia si manifesta nel corpo, partendo dalle spinte muscolari delle gambe fino ai grandi muscoli della schiena.
La repressione della rabbia è quindi anche repressione dell’amore autentico, della tenerezza e della comprensione genuine — non di quelle di circostanza o di comodo, tipiche del masochista che sembra generoso e debole ma che dentro è fortemente arrabbiato.

Non esiste un bambino che nasca masochista: lo diventano a causa dell’ambiente e degli adulti intorno a lui.
Così, parlando di rabbia e di come nascono i nostri bisogni più profondi — come compassione, gioia, partecipazione, gentilezza e umanità — si capisce che questi sentimenti si originano da una spinta naturale alla rabbia.
Questi sentimenti sono necessari, ma vanno accompagnati da confini chiari e dalla capacità di dire “no”, con autorevolezza. Altrimenti non servono a nulla.

Per questo dobbiamo riappropriarci di una “leadership di contesto” forte. Il “muro di gomma” serve proprio a questo: a non permettere che un bambino veda il telefono più di dieci minuti la sera non perché siamo cattivi, ma perché quella è la regola, la legge.
Allo stesso modo, le maestre o gli assistenti sociali possono insistere finché un bambino non capisce che certe cose — come toccare il seno di una maestra — non si possono fare. Non è normale, non si può fare e basta. Poi si cerca di capire cosa c’è dietro, ma il limite va posto.

Questo confine permette di lasciare spazio alla compassione, all’espressione della rabbia e del piacere, e soprattutto insegna a dire “no”.
Se il bambino è sano, questo “no” nasce in un conflitto naturale e necessario per la crescita.

Per poter gestire la rabbia, dobbiamo prima imparare a riconoscerla, a sentirla davvero — e questo significa diventare consapevoli del nostro corpo, del respiro, delle tensioni muscolari.
Se abbiamo un “muro di cartone” dentro, quel muro cadrà facilmente e non capiremo mai cosa sta succedendo. È fondamentale esercitarsi con la propria rabbia, imparare a conoscerla.

Nel conflitto, il giovane scopre le proprie differenze e disuguaglianze. Un esercizio utile, se avete figli piccoli, è la lotta nel lettone — anche le bambine la praticano.
Il concetto è questo: nella lotta con il genitore si percepisce la disuguaglianza. Alla base ci sono delle regole chiare: niente sputi, niente morsi, niente pugni. Ma si può lavorare sulle prese, così il bambino capisce che l’altro è più forte.
Tuttavia, non bisogna farlo sempre vincere: se un bambino di 4 anni batte il padre, che senso ha?
Il bambino potrebbe pensare di poter fare qualsiasi cosa. Questo non è educazione all’autostima, ma educazione all’onnipotenza — cioè imparare a perdere, a vincere, a stare con la realtà.

Il conflitto è un momento naturale dell’esistenza. La fisica ci insegna che la natura è fatta di spinte e conflitti, non solo di ordine e staticità. Il conflitto va permesso, favorito, ma anche confinato: si dà libertà entro certi limiti.

Che finalità ha dire “no”? Un “no” detto sempre e comunque è un problema. Ma anche non dirlo mai lo è. C’è il rischio di diventare onnipotenti o di reprimersi completamente. 

Nel bambino, quando arriva la rabbia, deve esserci un confine. Un organismo sano ha un equilibrio tra contenimento e sregolatezza: permette di esprimere impulsi e sentimenti in modo efficace, perché mente e corpo sono connessi.

Siamo in grado di fare un “muro di gomma”? Di avere un atteggiamento coerente? Puoi dire “no” con fermezza ma poi non rispettarlo. Il “no” vero non è rabbioso o agitato, ma fermo, calmo e deciso. 

Non sei autoritario se batti il pugno sul tavolo: sei solo poco radicato. Il “no” è anche rispetto per sé e per l’altro, perché è coerente.

Desidera quindi diventare “pesce corallino”: ci provi se sei aggressivo, se vai a prenderti ciò che vuoi, senza aspettare. Potresti così raggiungere un livello superiore, differenziarti.
Il successo non è solo visibilità o fama, ma una realizzazione personale che ti fa stare bene —accompagnata da sentimenti come compassione, gioia e gentilezza — ma sempre con la capacità di dire anche un “no” categorico.

Sammy Marcantognini

Team Ethica Center